Addio a Farrah Fawcett
di Gaia Manzini
Farrah Fawcett se n’è andata per sempre , a sessantadue anni. Per una strana beffa del destino l’angelo della nota serie televisiva, si è spenta a Los Angeles, nell’ospedale dove era ricoverata.
Erano anni che lottava contro il cancro al colon: lo aveva raccontato in un documentario dal titolo “Farrah’s story”. Eppure nelle ultime settimane le sue condizioni erano peggiorate, fino a precipitare in modo irreversibile. Nonostante questo, nonostante gli amici si fossero avvicendati per un ultimo saluto, nonostante la presenza di un sacerdote pronto a dare l’estrema unzione,
aveva ugualmente deciso di sposare il compagno di una vita, Ryan O’Neil, lì con lei sempre, a vegliarla giorno e notte per quindici giorni. E’ commovente come la vita segua da vicino il copione del famoso Love story, di cui O’Neil è stato protagonista negli anni Settanta. Ancor più commovente che una donna sul punto di morte, risponda con un atto vitale. Con qualcosa come una promessa di matrimonio che parla di vita: una vita, tutta, da passare insieme.
Ci sono notizie che travalicano i fatti di cui parlano. Eventi che fanno da eco a qualcosa che si agita al buio, dentro ciascuno di noi.
E’ difficile parlare della morte.
Più facile affidarsi alle mediazioni dell’arte: a commoventi film sull’eutanasia come Le invasioni barbariche, alle ipotesi irreali ma consolatorie di libri come Le intermittenze della morte di Saramago, oppure sentirne la portata tragica tra le righe dei più grandi: da Dostoevskji a Faulkner, da Beckett e Bellow, passando per Céline… potrei continuare, ma l’elenco sarebbe fin troppo lungo.
Nella vita, quella vera, quella di ogni giorno, della morte non si parla mai. La si schiva. La si scansa con un gesto, un rapido sali e scendi della glottide, una sospensione della frase. Si trovano le perifrasi più delicate per accennarvi, prima di passare ad altro: quando non ci sarò più, quando sarò andato, quando non darò più notizie…
La morte sta tra le lancette degli orologi, nelle pause. E’ il grande sottinteso di ogni discorso, di ogni paura, di ogni progetto futuro. E’ quella cosa che non c’è, pur essendoci sempre.
Accompagnare qualcuno fino all’ultimo addio. Capita a tutti prima o poi. Tempo fa ho seguito le fasi finali della vita di mia nonna. Andavo in ospedale, mi sedevo e le tenevo la mano. Era come se camminassimo insieme, ma in quei passi ideali mi sentivo incerta anch’io. Anzi, molto più di lei che aspettava silenziosa. Che sapeva.
Negli ultimi mesi s’è parlato molto di termine ultimo. Chi non ricorda il viso di Eluana? Chi non si è chiesto cosa avrebbe fatto al posto di papà Beppino? Chi non si è posto il problema di un proprio testamento biologico?
La morte, sia che si tratti di liberazione dalle sofferenze d’una malattia incurabile, sia che arrivi invece in modo naturale, chiede sempre di prendere posizione. Ma lo chiede alla vita. Lo chiede a chi rimane.
E’ strano come sedendosi di fianco al letto di una persona amata che sta per andare, per attimi che possono durare giorni, si è uguali, appaiati e uniti davanti a qualcosa che è impossibile immaginare. Uniti su un uscio. Una soglia dove è la vita a diventare più grande di quella che è. Perché tiene aperte tutte le possibilità, anche quelle impensabili. Anche se con passo incerto, la vita risponde alla morte con tutta la sua grandezza. Col suo essere aperta. E’ l’unica cosa che può fare: si decide di sposarsi in punto di morte; a una ragazzina di dieci anni, come la piccola Colby Curtin, viene concesso di vedere, in anteprima mondiale, l’ultimo film della Pixar, Up; a una nonna che chiede insistentemente di sua mamma, quella che vede sul soffitto a farle gesti, a chiamarla a sé, si fa finta di sentirne la voce e si inventa lì per lì, con le lacrime agli occhi, un dialogo d’affetto e d’attesa di cui non si sa niente.
Lisbona è città piena di miradouros: luoghi dove sedersi a guardare l’orizzonte. C’è tutta una tradizione lusitana sull’arte quotidiana di far disperdere lo sguardo. Un detto portoghese parla del “vedere le navi dal Belvedere di Santa Catarina”: cioè, dare un’occhiata all’esilio prossimo.
E se si è compagni di un ultimo viaggio, si condivide questa visione piena di sgomento, che s’affaccia su qualcosa d’inconcepibile per entrambi. Infinito. Leopardi lo sapeva bene.
Però, in quell’attimo si è uguali. Chi va uguale a chi resta: con la coscienza di essere assorbiti in un flusso unico.
Un po’ come nella pièce teatrale sul grande matematico indiano Ramanujan, che ho visto mesi fa al Piccolo: siamo desappering number, numeri che scompaiono susseguendosi senza tregua dentro una sequenza infinita e bellissima, giacché il tempo e lo spazio sono continui, non conoscono interruzioni se non quelle che gli diamo noi per convenzione. Gli indiani lo sanno bene, visto “ieri” e “domani” corrispondono ad uno stesso termine: kal. La vita è ripetizione, la morte anche. Il confine, il momento dialettico, è l’oggi.
In quel momento di congiunzione, la morte diventa tutto quello che la vita può fare per illuminarla, anche solo per un attimo.
Un infinito che risponde a un altro infinito. Chi va uguale a chi resta.
Non so dire cosa sia meglio fare per accompagnare qualcuno fino al saluto definitivo, ma so cosa vorrei io: che mi si proponessero viaggi intorno al mondo, che potessi vedere tutti i film di una vita in un solo momento, che venissero tutti gli amici a fare festa… Tutte le porte aperte, insieme, in sincrono perfetto. Direi di sì a tutto.
Di una bella raccolta di qualche anno fa, dal titolo significativo Racconti di un giorno che sai, ne ricordo uno in particolare: L’airone. Il resoconto di “un’esperienza sul campo” fatta da Doriano Novi, medico generico. Si descrive l’ultimo attimo della vita come nistagmo: parola usata in medicina per indicare il disperato tentativo di chi, preso da vertigini, cerca con gli occhi il senso dello spazio. Con la coscienza di un volo lì lì da spiccare, le pupille vibrano all’impazzata prima di volgersi altrove per sempre e la voce implora “Tenetemi, tenetemi”.
Quest’immagine mi è rimasta in testa per tanto tempo. Mi sono chiesta spesso cosa significasse. Direi di sì a tutto, perché la vita, quella degli altri, in quel breve e vasto attimo si mette in moto limpida, a tutta velocità. E perché lì vieni fuori per quello che sei, sei sempre stato e te ne sei dimenticato. E’ bello che gli altri te ne diano la possibilità. E il “tenetemi, tenetemi”, non è un vano tentativo di non spiccare il volo, ma la volontà di rimanere dentro quelli che restano. Ancora per un po’, come (dis)appearing number.
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