sfruttamento e tratta del sesso
E allora resti immobile, ti avvicini in punta di piedi, perché ci sono storie che è difficile raccontare e che si perdono tra le vie della città barocca, quasi a invadere le strade attorno ai “palazzi del potere”, come a Moriana, la città invisibile dalle due facce di Calvino. Lecce di notte si tinge così, “le porte d’alabastro e le colonne di corallo” lasciano il posto a una “distesa di lamiera arrugginita”. E in quella distesa, tra il quadrilatero a luci rosse che passa per Via Don Bosco, Via Oronzo Quarta, Via Martiri d’Otranto e Via Lombardia, si nascondono storie di violenza, di sfruttamento e di prostituzione, storie di donne che vendono il loro corpo per poco più di 20 euro. Mentre sei ferma in stazione ripensi alle parole della dottoressa Ines Rielli, responsabile del Progetto Libera, che hai incontrato qualche giorno prima nel suo ufficio, al civico 17 di Viale Marche. La dottoressa lavora nel centro antiviolenza e accoglienza di Lecce: quello di Libera è un programma di assistenza e integrazione sociale che opera dal 2000 in città, gestito dal Servizio Politiche Sociali e di Parità della Provincia e rivolto a donne e uomini migranti, vittime di tratta, violenza, sfruttamento sessuale e lavorativo. Ce ne sono 25 su tutto il territorio nazionale, in Puglia tre: Lecce, Foggia e Bari. Dal 2000 al 2012 in Italia sono state 21.378 le persone che hanno deciso di partecipare a un programma di protezione sociale. E oltre 65 mila le persone che hanno ricevuto una qualche forma di supporto contro la tratta: informazioni, consulenza legale, consulenza psicologica, accompagnamento socio-sanitario in progetti di protezione.
Ho incontrato Ines Rielli in una mattinata tiepida di febbraio negli uffici della nuova sede, un po’ nascosti e poco sicuri. Ci arrivi dopo aver camminato lungo un viale alberato che si affaccia su un giardino retrostante. Camminare su questo viale non deve essere facile per chi cerca aiuto. Infatti da quando la Provincia di Lecce ha ridotto i finanziamenti e disposto un cambio di sede, l’ufficio di Libera è stato spostato da un luogo più nascosto e sicuro a questo plesso in viale Marche, che è lo stesso nel quale vengono offerti tutti gli altri servizi agli immigrati. Con il risultato che spesso le vittime corrono il rischio di incontrare i loro stessi sfruttatori.
Sulla scrivania della dottoressa Rielli ci sono fascicoli e documenti accatastati; dietro di me un armadio con altri raccoglitori, uno su tutti, rosso e nero, forse il più grande: “Prostituzione”. Dentro, le 2.230 storie di incontri fatti nei 13 anni di attività: storie di donne di nazionalità diversa, rese schiave e sfruttate da connazionali e da organizzazioni criminali. Parole che si attaccano a quei muri e non riescono ad andare via.
Racconti di donne nigeriane vendute dalle famiglie per poco più di 7 mucche o rese schiave da uno sfruttatore, donne che partono con la speranza di ricominciare a vivere e trovare un lavoro in Italia, costrette a pagare un debito (che si aggira intorno ai 50.000, 60.000 euro) a chi quel viaggio glielo ha concesso.
E anche storie nelle quali lo sfruttamento si intreccia alle credenze religiose e alla cultura tradizionale dei luoghi di provenienza, le zone rurali dell’Africa centrale. Elementi culturali manipolati e snaturati dagli sfruttatori che ne fanno strumento di sottomissione violenta. Così accade con le credenze vudù. Appena arrivate in Italia, ognuna dalla propria maman (è così che chiamano le trafficanti o le sfruttatrici che le rendono schiave), le donne nigeriane vengono costrette a spogliarsi. Nude, forbici e rasoio in mano, vengono costrette a tagliarsi le unghie dei piedi e delle mani, ciocche di capelli e peli pubici. Tutto viene riposto in una bacinella, insieme all’intimo e ad un assorbente sporco di sangue, e consegnato nelle mani di quella che chiamano “gran signora” e che da quel momento avrà il potere di minacciarle costantemente. Così le donne vengono private del corpo e dell’anima, ricattate da un’ossessione la notte e il giorno. “Mi chiudono la testa, mi stringono” ripete una ragazza nigeriana del centro in uno dei racconti. “Questa donna soffre di problemi psichiatrici – dice la dottoressa – è terrorizzata da queste pratiche, ha smantellato un albergo e demolito i sanitari”. E aggiunge:
“Un’altra che usciva dal Cpt di Brindisi ha voluto battezzare suo figlio, pur non essendo cattolica, forse un esorcismo, una catarsi dovuta al piccolo bambino rispetto alla ritualità vudù di cui lei era convinta di esser vittima. Le donne nigeriane sono terrorizzate, è uno strumento di controllo terribile rispetto alla persona. Finché non saldi il debito sei nelle loro mani. E a questo si aggiungono le minacce ai familiari in patria, alcuni dei quali sono stati brutalmente uccisi”.
Le storie in quel centro sono tante, forse troppe, quei fogli fatti di tabelle e grafici prendono vita, raccontano. “Si diventa prostitute in tre giorni”, racconta un’utente del centro, quasi a voler sottolineare la velocità con cui viene rotto e demolito il muro di forza, la propria dignità di donna. È la storia di una giovane ragazza scappata dalla violenza qualche settimana fa. Tutto inizia con un’agenzia di Nairobi che promette di organizzarle il viaggio. “Tu credi di partire per ricominciare a vivere, per trovare un lavoro dignitoso in Italia, così ti affidi a loro”, spiega la dottoressa. L’agenzia organizza tutto il viaggio, chiede 3.000 euro: 1.000 per il visto, 1.000 per il permesso di soggiorno e 1.000 per le spese. I soldi in questo caso te li procuri tu, nessun debito da pagare come nel caso delle donne nigeriane, prima di partire ti rechi in agenzia, ti mostrano i documenti ma, attenzione, non li consegnano (elemento fondamentale per la tratta). Ti accompagnano in aeroporto e ti ritrovi al check-in con altre 9 donne: totale 10 donne e due uomini della famosa agenzia. Cinque partono con uno e cinque con l’altro. Arrivate a Roma, tre vanno con un uomo e le restanti sette vengono portate in un albergo. La prima notte dormono tutte nella stessa stanza, la seconda, uno degli uomini torna con una “gran signora”, è così che la chiama la ragazza, e chiede: “Chi vuole andare con questa donna che vi troverà il lavoro?”, “Che lavoro?” chiede ingenuamente una delle ragazze nella stanza, l’uomo sorride, quasi divertito, e replica: “Ma come non l’avete ancora capito!”. Da quel minuto inizia la tragedia, tutto è chiaro anche ai suoi occhi, tre donne vanno con la gran maman, quattro rimangono con l’uomo. Viene assegnata una stanza a ognuna di loro, nella camera della ragazza che oggi chiede aiuto arriva un altro uomo che la violenta senza pietà, per tutto il giorno, la notte e per tutta la mattina seguente. La rende fragile, la indebolisce, iniziandola al suo lavoro da puttana. Così, l’organizzatore del viaggio inizia a fissare appuntamenti con i clienti dal pomeriggio stesso. La ragazza non ha un cellulare, è segregata in albergo, ma riesce a scappare dopo una settimana, approfittando della distrazione di un cliente. “Ora con lei abbiamo intrapreso la via del percorso sociale, ma non è facile”, spiega la dottoressa Rielli. Secondo l’art.18 T.U., ci sono due strade, infatti, che si possono percorrere per ottenere il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale: il percorso giudiziario che prevede la denuncia da parte della vittima o il percorso sociale in cui la vittima non sporge denuncia, ma aderisce ad un programma di protezione sociale e la richiesta viene fatta dai servizi sociali che si occupano di raccogliere la storia e intraprendere questa strada. “È l’unica via che possiamo percorrere in questo caso, la donna non conosce i nomi, i luoghi, i contatti, non possiamo effettuare una denuncia se gli unici elementi a nostra disposizione sono ‘gran maman, uomo bianco, fratello nero’. Sarà difficile, lei deve sapere che, in tutti questi anni, su 365 permessi di soggiorno rilasciati solo tre sono stati ottenuti senza denuncia da parte della vittima”, spiega la dottoressa “e quando arriverà un no, perché arriverà, per lei ci sarà un’unica possibilità: il rimpatrio assistito entro giugno, tornerà in Africa dove la aspettano i suoi tre bambini da mantenere, che ora sono affidati alla sorella malata di aids”.
A Viale Marche, ogni giorno arrivano donne disperate, quando va bene portano con loro una busta di plastica e qualche indumento, alcune tanta rabbia per il destino beffardo. La dottoressa si ferma, abbassa lo sguardo e sorride: “una delle nostre utenti tutte le volte che mette piede in ufficio ripete una frase, e lo fa con la rabbia negli occhi: “Cristo mio, perché mi hai fatto nascere povera, nera e prostituta? Ti prego, in un’altra vita, fammi rinascere principessa”.
Ma negli uffici di Libera in tutti questi anni sono arrivate anche altre storie. A Lecce non esiste infatti solo uno sfruttamento prettamente sessuale perpetuato nei confronti di donne africane. Tra il 2004 e il 2005, infatti, il progetto inizia a intercettare donne vittime di sfruttamento lavorativo e a diversificare l’operato. Sulle 241 donne in protezione sociale nelle tredici annualità, a Lecce il 70% circa è vittima di sfruttamento sessuale, mentre il restante 30% è vittima di sfruttamento lavorativo (contro il 60% rappresentato dallo sfruttamento sessuale e il 21% dallo sfruttamento lavorativo registrati a livello regionale).
Polacche, rumene, bulgare, brasiliane costrette a lavorare come badanti, bariste o ballerine in discoteca. Ma lo sfruttamento lavorativo delle donne, purtroppo, non è mai solo lavorativo, c’è sempre una richiesta sessuale dietro. E così, anche in questo caso, le storie sono tante e diverse. Dal fenomeno delle badanti brasiliane o rumene prive di permesso di soggiorno alle ballerine nei night, le prime costrette a sfamare, oltre ai bisogni di assistenza, anche i desideri sessuali dell’assistito. Vengono segregate in casa e selezionate come carne da macello, corpi nudi posti dietro una vetrina, scelte accuratamente dallo sfruttatore, che premia le più belle e le più giovani; le seconde, invece, sono costrette a prostituirsi, in alcuni casi dietro a una gabbia di vetro nei locali della riviera romagnola.
“È successo a due nostre donne-dice la dottoressa- che lavoravano in un night della Riviera, sono state costrette ad assistere anche all’omicidio di un’amica, legata ad una macchina e trascinata su e giù per la strada, uccisa senza pietà davanti ai loro occhi”.
Donne scappate, fuggite dai datori di lavoro, rinchiuse in retrobottega fatiscenti, violentate. La salvezza, spesso, riescono a trovarla nei clienti, che si rivelano grandi alleati: “Una delle nostre utenti è tuttora sposata e ha avuto un bambino da un suo cliente, che ha fatto il diavolo a quattro per liberarla dalla schiavitù”, racconta sorridendo la dottoressa.
Nei 18 mesi previsti dal programma di protezione sociale le donne provano a rifarsi una vita, ma il percorso verso l’emancipazione è lungo e suddiviso in diverse fasi: dall’accoglienza, in cui vengono ospitate nelle tre case ad indirizzo segreto sparse per la città, al supporto psicologico, dalle attività di regolarizzazione alla formazione, dall’orientamento all’inserimento lavorativo. In sostanza, i 18 mesi servono per fare inclusione sociale. Trascorso questo tempo, molte ce la fanno, altre no, perché perseguitate ancora dagli sfruttatori e costrette a trasferirsi, altre ancora abbandonano prima, per paura, per disperazione, perché a volte non è facile denunciare i familiari. In media quasi due donne l’anno abbandonano il programma, per un totale di 33 abbandoni registrati nei 13 anni di attività.
Malgrado i diversi tipi di sfruttamento, però, anche Lecce conferma i dati nazionali che vedono la tratta del sesso come la pratica più diffusa rispetto alle altre tipologie di sfruttamento. La morsa della crisi economica, dichiara l’ispettore Vincenza Spagna della Questura di Lecce, non ha influito sulla richiesta di prestazioni sessuali: il numero delle donne vittime di sfruttamento sessuale sulle nostre strade rimane costante. O se preferite: il mercato della schiavitù sessuale a Lecce non conosce una diminuzione della domanda. Cambia, invece, il prezzo delle singole prestazioni. Crescono le donne nigeriane costrette a vendersi anche per soli dieci euro. Vengono fatte prostituire nelle macchine dei clienti o dietro a una pompa di benzina. L’ispettore Spagna mi accoglie nel suo suo ufficio. Anche qui carte, documenti e foto di donne invadono la scrivania. Da una cartellina tira fuori dei fogli e mostra la mappa della prostituzione in città: la strada statale 101 è frequentata per lo più di giorno (dalle 6.00 alle 17.00) dalle nigeriane, il quadrilatero a luci rosse antistante la stazione è invece popolato di notte da nigeriane e bulgare. Poi c’è il centro storico (Via Quinto Ennio, Via dei Rivola), il rione delle Giravolte dove vige una sorta di egemonia del Sudamerica (donne colombiane in primis) e la cosiddetta “prostituzione dei 15 giorni”: le donne vengono fatte “ruotare” ogni 15 giorni, cambiando appartamento o città. Fatto che non solo favorisce una sorta di “ricambio” per i clienti ma rende molto più difficile per le vittime “ambientarsi” in città e cercare scappatoie.
L’ispettore racconta le operazioni svolte negli ultimi anni, i processi che ne sono seguiti. Il legame che c’è tra la malavita locale e le organizzazioni internazionali per lo sfruttamento della tratta. “A Lecce – spiega – sono ancora in corso delle indagini, non è possibile avanzare ipotesi certe”. Ma a Bari e in altre città d’Italia è stato provato un legame solido: i “fratelli nigeriani” e gli altri protettori pagano un prezzo alto per l’occupazione dei marciapiedi alla mafia locale, un importo che va dagli 80/130 euro al giorno ai 1.000 euro mensili. È la prostituzione su strada che crea maggiori preoccupazioni sul fronte dell’incolumità delle ragazze: “Queste ragazze rischiano la vita ogni notte per 10 euro e per un debito da pagare. Solo nel 2013 ne abbiamo individuate 25 a Lecce”.
Lascio la questura e percorro Viale Gallipoli a piedi, mi torna in mente qualche frase, ma non è facile capire. È mattina, le luci dei lampioni sono spente e il via vai dei clienti della sera prima non solo si è arrestato, ma sembra non essere mai esistito, nel traffico delle auto dei leccesi che lavorano. Moriana è tornata a tingersi di nuovi colori e le vie intorno ai palazzi di potere sono tornate a splendere. In stazione, sul binario 5, solo studenti e pendolari. Le principesse hanno fatto ritorno a casa, il treno delle puttane è già partito da un pezzo.
di Giusy Casciaro
DA - http://www.20centesimi.it/blog/2014/02/23/cristo-mio-fammi-rinascere-principessa-sfruttamento-e-tratta-del-sesso-a-lecce/
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Termine introdotto da C.G. Jung (1875-1961), con riferimento a un’Imago ‘materna’, ‘paterna’, ‘fraterna’ e divenuto di uso comune in psicanalisi. Caratterizzata come ‘rappresentazione o immagine inconscia’, l’Imago è piuttosto uno schema immaginario, un prototipo inconscio che orienta in maniera specifica il modo in cui il soggetto percepisce l’altro, ne orienta cioè le proiezioni. Formatasi sulla base delle prime relazioni del bambino con l’ambiente familiare, l’Imago non va peraltro considerata come correlato di figure reali, ma presenta carattere fantasmatico; così a un’Imago genitoriale minacciosa e terribile possono corrispondere genitori reali estremamente miti...leggi tutto -
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articolo interessanteio credo che insieme A tutti gli aiuti possibili e immaginabili per eliminare del mundo le situazioni di degrado sia necessario anche un controllo delle nascite ,perchè se nei paesi poveri continunoa a fare così tanti figli a parte l' enorme problema della carenza di risorse a cui andiamo incontro, il degrado aumentera' sempre.
RispondiEliminaMeno figli!
analogo discorso vale ovviamente per tutto il mondo quindi anche per noi.